Un dolce
cult con lo sciacchetrà per le Cinque Terre. Ma non solo
di Gabriella
Molli
Sulla Passeggiata Morin, nell’ambito della mostra di foto di Oliviero Toscani, c’è
una gigantografia con una ricetta di Daniela che ha suscitato molto interesse:
dolce allo Sciacchetrà.
E, come sempre, quando in cucina emerge un’idea o un
concetto che esce dai canoni, qualche detrattore... Non ti curar di loro, mi verrebbe
da dire in prima analisi. Poi la voglia di far emergere la bellezza di questo
dolce, che rappresenta in modo totale le Cinque Terre, prevale. E allora vado
avanti. Dove si legge questa ricetta di Daniela? E’ collocata nel librotto
‘Buon Appetito’ edito da Port La Spezia Cruise Terminal, su ideazione
dell’Autorità Portuale, per diffondere alcune eccellenze gastronomiche del
territorio. Tutte le ricette del librotto sono di Daniela. Alla voce ‘Cinque
Terre’ sotto la foto del vignaiolo Walter De Battè che promuove un vino che un
tempo era chiamato ‘rinforzà’ e conservato con religione, in una ricetta da
tenere in massima considerazione per il taglio che ha, compare questa magica
parola (Sciacchetrà) sulla cui nomenclatura si è scritto molto. Dietro questo magnifico
prodotto vinoso dal nome arabeggiante, infatti, c’è una serie di operazioni che
lo rendono molto prezioso. Sono in pochi i produttori leali che non manipolano
la sua formula, oggi difficile da realizzare in purezza, ma con un lavoro da
frate certosino si possono trovare ‘Sciacchetrà’ di grande livello.
Lo Sciacchetrà. Vino delle
Cinque Terre e solo delle Cinque Terre. Si racconta che le vigne delle Cinque
Terre fossero così basse che dovevano raccogliere l’uva stando sdraiati. E le
vigne venivano coltivate così in basso sulle scogliere che si faceva vendemmia con
le barche. Il racconto finisce nella leggenda, ma è indubbio che le vigne nelle
Cinque Terre si radicavano in quella poca terra che potevano trovare,
succhiando tutti i sali là dove si poteva. E questo è stato il vero tesoro di
un vino (lo Sciacchetrà) da considerare ampiamente ‘bandiera’ di un territorio.
Un vino che ha dentro cielo e mare, frutto di una agricoltura eroica, come è
stato scritto più volte. Fedele a se stesso, anche se passato attraverso
evoluzioni di pensiero enoico sempre più avanzato. Il contadino-produttore ha
cambiato nel tempo regole e strumenti, aggiornandoli come vuole la moderna
enotecnica. Ma è rimasto schiavo di quel miracoloso bisogno di vivere che hanno
le vigne delle Cinque Terre. Sono arrivati così i trenini, i sentieri nuovi, le
nuove misure di difesa dei vigneti per tenere lontano i cinghiali da quella
grazia di Dio che la poca terra regala. E tutto questo ha avuto in grandi
uomini del vino come Walter De Battè, il significato di una sfida. Quando i
cinghiali una notte gli hanno mangiato l’uva, fatto increscioso dovuto alla
mancanza di razionalità degli uomini, è ripartito. Sembra una filosofia di
sopravvivenza la sua, ma è invece grande amore per la sua terra. Il vino delle
Cinque Terre (come tanti passiti) è stato come gli altri vini un simbolo
mediterraneo di energia da immettere nell'organismo per trarne vigore qui e
ora. La gioia dell’invenzione. E’ la storia stessa del vino che insegna questo: tant'è che i riti dionisiaci ci parlano di distacco dalla realtà, di
superamento dei vincoli terreni. Di volo. Di energie nuove. Dunque è
ipotizzabile che tanta fatica, tanto eroismo enoico, siano nel caso dello Sciacchetrà associati alla simbologia stessa della vita. Il vino dava la forza
per andare avanti. Il vino bianco è stata una scelta, ha dominato nelle Cinque
Terre. Ma gli anziani raccontano anche di rossi che portavano sangue nuovo. C’è
da crederlo. La specializzazione del territorio ha preso quindi una strada
diventata solo a senso unico. Quindi sono stati i bianchi a prevalere, con una
realtà enoica (per quello che riguarda lo Sciacchetrà, che è passata attraverso
un vino dionisiaco, così raro e importante, perché metterlo in un
dolce? Ma non è possibile, dicono i detrattori, che insistono anche sul fatto
che le donne non lo mettevano perché era un vino ‘riservato’ e ‘dedicato’. Il
vino delle nascite, dei fidanzamenti, dei matrimoni. I detrattori non pensano
che mettere vino in un dolce è stato invece l’atto primario della donna antica,
che chiedeva alla madre terra il dono della fecondità. In secondo luogo si
pensi all'uso del pregiato marsala, anch'esso messo nei dolci, perché? La
storia si ripete. C’è un retroterra antico. Il gusto sì, la donna lo cercava
per stupire le pupille e le papille, ma nei dolci metteva vino con una motivazione diversa,
la stessa che la spingeva a mettere alcuni ingredienti (leggi uvetta, pinoli) legati all'assunto della offerta-richiesta alla madre terra. E’ questo che sta dietro
alla nascita dei dolci. E ora una divagazione che diventa conferma. Si pensi al
dolce tradizionale dell’Elba: la schiaccia briaca.
La schiaccia briaca rappresenta la tradizione
pasticciera dell’Isola d’Elba. Morbido, forma rotonda, è impastato con il vino
Aleatico di origine saracena. La superficie è di colore rosso per via dell’alchermes
cosparso sopra lo zucchero. Il sapore è unico. Ha un intenso profumo di moscato
e di frutta secca. La sua preparazione consiste in un rituale antico
che mescola profumi, colori e gesti in un crescendo pieno di fascino e attesa.
Una specie di cerimonia che si può considerare compiuta soltanto quando la
schiaccia viene sfornata quando emerge il color nocciola intenso, mentre
la superficie del dolce assume tonalità rossastre dettate dall'alchermes che unito
allo zucchero, forma una sottile e croccante crosticina di grande fascino. Perfetto
l’Aleatico, che è il passito dell’Elba, vino da dessert con riflessi granato
intensi.
Le origini della schiaccia briaca risalgono,
sostengono gli elbesi, al tredicesimo secolo, inizio delle invasioni saracene
che all'Elba si protrassero per ben tre secoli. I pirati barbareschi, oltre a
saccheggi e distruzioni, portarono un dolce che raccoglie gli ingredienti
tipici della cucina mediorientale (pinoli e uva sultanina). Raccontano che la
ricetta originale era senza alcool secondo i precetti dell’Islam, ma venne nel
tempo modificata dalle donne elbane, memori delle grazie che portavano i magici
due elementi citati. La schiaccia, raccontano ancora, diventò “briaca”
(ubriaca) solo nell'Ottocento, quando, per renderla più gustosa, all'impasto venne aggiunto l’Aleatico. Credo che una maggiore informazione sull'uso del
vino nei dolci di matrice araba, avrebbe tolto di mezzo questa informazione. Usavano
il vino come l’aceto per fini di elaborazione e per miti cerimoniali. Comunque fino
agli anni Trenta del secolo scorso, inoltre, al posto dello zucchero le
famiglie elbane ricorrevano al miele, dolcificante meno costoso che assicurava
una conservazione migliore, conferendo al tempo stesso sofficità e profumo
gradevole alla schiaccia. Il dolce che ne risultava, senza lievito né uova, era
a lunghissima conservazione e quindi adattissimo a far parte delle provviste
dei marinai. Come lo era stato per i movimenti dei nomadi. Le tracce storiche a
questo proposito sono molto ben documentate. Pur essendo un dolce che ha un
consumo casalingo invernale e natalizio, la schiaccia briaca oggi si produce e
consuma in ogni periodo dell’anno. Non esistendo per secoli una ricetta scritta
(le donne avevano il solo mezzo della parola, ed etano le più; solo le donne di
area borghese sapevano leggere e scrivere) La preparazione della schiaccia
briaca dell’isola d’Elba è stata tramandata da generazione in generazione anche
con diverse formule di casa. Ma sempre profumate di Aleatico. E con i bene-auguranti pinoli e uvetta.
Perché ho raccontato la storia dell’elbana schiaccia
briaca? Semplice. Mi piacerebbe un giorno veder diventare il ‘dolce con lo Sciacchetrà’
un cult delle Cinque Terre. Le due storie si somigliano.
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