Mescia, Mes-ciua, Misciuia
di Gabriella Molli
Stuzzicata dalla ricetta
della mescia chiavarese di Daniela, voglio parlare di tre parole che si
somigliano molto: Mescia, Mes-ciua, Misciua. Chiavari - La Spezia - Tunisi. E’ un
argomento che ho trattato altre volte e che mi richiama anche un evento
multietnico di Slow Food, organizzato in piazza Brin e dedicato a un piatto
nordafricano molto in uso durante il Ramadan: la harira.
Mescia chiavarese,
mes-ciua spezzina, misciuia hanno in comune una specie di vicinanza labiale per
la pronuncia, ma non solo, Sono indicatori di cucine nel Mediterraneo. Mes-ciua
e harira quanto hanno di comune? Parliamo prima di questo, perché con
l’attentato di Parigi, stiamo vivendo un momento molto angosciante, che
dobbiamo in qualche modo elaborare. Le radici comuni di fatti gastronomici
forse sono un buon mezzo. Vediamo cosa ho scritto in
occasione dell’evento di piazza Brin.
‘Una piazza storica
post-Arsenale (piazza Brin) è stata scelta da Slow Food Golfo dei Poeti-Cinque
Terre-Val di Vara-Riviera Spezzina per una riflessione conviviale sul fronte
comune di due indicatori gastronomici, che apparentemente nati in ambienti
molto lontani del mare nostrum, si ritrovano poi nelle preparazione quasi
affini: mes-ciua e harira.
L’ambientazione è quella del Comera, alloggiato alla base dell’imponente
palazzo umbertino con cui la piazza si chiude verso mare.
Le grandi pentole di
alluminio (molto usate) offrono già un’atmosfera da cena in famiglia. La
mes-ciua si presenta nella formula di zuppa che ci ha consegnato la pratica di
cucina spezzina degli ultimi vent’anni: ceci, cannellini, grano. Ma non
esisteva una formula gastronomica unica: andando verso Sarzana cambiano gli
ingredienti, subentrano i fagioli borlotti e la cicerchia (tanto cara agli
Etruschi). La harira ha un aspetto più concentrato. Secondo un uso marocchino,
come vuole la tradizione di casa della giovane donna mediterranea che l’ha
fatta, vede la presenza dei fidellini e delle lenticchie. Un gioco proposto da
Gabriella Tartarini, membro della condotta, è centrato sulla scelta fra le due
“zuppe” e come è d’obbligo per le cene culturali di Slow Food, si va dentro il
piatto. Dentro la sua storia, dentro le coordinate sociali che ne formano
l’impronta. Si va, insomma, alla ricerca delle orme biologiche di ognuno dei
due piatti. Nasce subito l’esigenza di collocare l’harira come precedente
esperienza gastronomica, rispetto alla mes-ciua. La stessa analisi della storia
dei semi e dei legumi ci informa che c’è un passaggio dei prodotti arrivati
fino a noi dalla fertile Mezzaluna, di almeno duemila anni. Gli stessi Romani
che si sono serviti del grande granaio africano, devono le loro puls a
esplorazioni di culture gastronomiche già affermate. Ancora gli stessi Romani
si sono rivolti a cuochi greci per risolvere i loro problemi di cucina evoluta,
arrivata a noi nel 1300 con i testi scritti di Apicio. Nonostante la diversità
di composizione i due piatti parlano lo stesso linguaggio: i fondamenti
alimentari tendono a forte similitudine di accostamenti. I semi (escludendo i
cannellini che sono post-colombiani) fanno parte di un retaggio che ha un forte
valore simbolico: la ricerca del benessere prima di tutto, e poi quelle note di
propiziazione alla madre-terra che di solito fa parte di rituali di cucina
della donna ai primordi della vita. Lo stesso procedimento dell’acqua calda in
cui i semi vengono cotti, risale a esperienze di “caso e necessità”, come
direbbe Maurizio Sentieri.
L’evoluzione dei piatti parte
sempre da una metodica femminile. Alla donna raccoglitrice era chiesto quel
compito di nutrire a cui non ha abdicato fino al momento in cui l’uomo è
entrato in cucina, relegandola a un ruolo minore e accessorio. E poiché, per
dirlo con Montanari, “il cibo è cultura”, ecco apparire nei due piatti, una
forte impronta sociologica. L’harira è piatto che non manca mai durante il Ramadan
e che profuma le strade in attesa della fine del digiuno giornaliero (Vincenzo
Capretti). Felice combinazione di semi (le lenticchie e i ceci in particolare)
viene preparata in varie versioni (ogni testa di donna concepisce la sua, più o
meno ricca di sapori, a cui non manca mai quello della cannella). E sulla
cannella occorre ricordare che “spezia divina”, richiamava la potenza dello
yang (il maschile, il cielo, l’asciutto, l’attività”. E serviva per allontanare
i fantasmi delle malattie, dei demoni. La mes-ciua, che molti vogliono nata nel
porto, raccogliendo le granaglie sfuggite ai sacchi, è verosimilmente più un
piatto di fine primavera: prima del nuovo raccolto le scorte dovevano essere
usate per evitare la crescita e l’invasione degli “intrusi” (Giorgio
Taborelli). Sullo stesso nome mes-ciua che molti vogliono derivato da
mescolanza di semi, c’è una versione allineata su una matrice mediterranea.
Esistono anche in Tunisia le “mishiua”, mescolanze di carne o di verdure. Tutto
questo fa parte di una storia comune, molto ben analizzata da Adelchi Scarrano.
Insomma esiste una grammatica della cucina mediterranea che accomuna mes-ciua e
harira. Siamo più “fratelli” di quanto pensiamo e la cena inter-etnica dello
Slow Food in piazza Brin ha assegnato un “indice di bontà” alla harira’.
In tempi come questi, di
grande paura per l’opposizione violenta di religioni, forse queste discussioni,
non sono oziose. A tavola c’è qualcosa che unisce. I gruppi violenti non
riusciranno a distruggere questa ‘unità’. E ora proseguo sul distinguo
mescia-mes-ciua-misciuia.
Durante Archeologica, evento
dell’aprile 2013 al castello San Giorgio, mi sono occupata di mescia (ricordo
che si pronuncia mescià). Scrissi allo studioso
chiavarese Giorgio Getto Viarengo per conoscere dati storici sulla mescia. Ecco
la sua risposta.
“Si tratta di uno dei
tanti, oggi diremmo piatti, della cultura contadina più arcaica. E' assolutamente la stessa
storia della vostra mesciuia, ma da noi si pronuncia mescià. Nei rapporti e nei
censimenti più antichi troviamo la semina dei cereali, in particolare semina
promiscua, alternata nelle stagioni; i cicli di semina seguivano le necessità
alimentari e i legumi si articolavano con tempi e possibilità di conservazione
maggiori. Da noi, nel Tigullio, la mescià è preparata tutto l'anno e servita
con dei componenti aggiuntivi, in particolare il cavolo in tutte le sue
espressioni di coltivazione e raccolta. Questo piatto, una zuppa, permetteva di
dare dei buoni carboidrati con ottime proteine (cereali e fagioli, ceci) un
piatto completo e ricco. L'aggiunta di una parte verde, il cavolo, poteva
essere intrepretata con altre erbe, in questa stagione dal Prebugiùn.
Con la Dott. Elisabetta
Starnini (soprintendenza Archeologica della Liguria) abbiamo tenuto diverse
conferenze sul tema, cercando di presentare un nesso tra la cultura contadina
più legata a micro territorio e l'archeologia. I risultati sono piuttosto ben
leggibili”.
Nel caso di
mescia-mes-ciua-misciuia si tratta di grande territorio, separato fra l’altro
dal Mare Nostrum, come i romani chiamavano il Mediterraneo. Ma di quasi
identiche tecniche di ‘mescolanze’, si tratta. Il mettere insieme, il legare i
prodotti di un luogo per ottenere un’alchimia perfettamente in linea far cielo
e terra. Traendo dalla terra, quindi, quei prodotti che ne fanno, con un
termine moderno, cibo interattivo per il corpo e per l’anima.
All writing and images on this site © Le Cinque Erbe