Polpettoni, polpette. Ed è
tutto Mediterraneo
di Gabriella Molli
Ogni volta che penso all'intelligenza della donna che ha creato polpettoni e polpette, mi viene in
mente con quanta sapienza ha agito. Le carni dure andavano ammorbidite, la
lunga cottura non sempre serviva. E allora dopo la lunga cottura (con dentro le
erbe magiche che davano sapore e toglievano le “puzze” della carne), ecco il
lavoro nel mortaio o dentro una pietra cava. Battere e girare, battere e
girare...il primo polpettone è nato così e poiché, quando “ipotizzo”
dei comportamenti gastronomici, trovo sempre sulla mia strada chi mi accusa di
visionarietà, mi servo delle parole della Reay Tannahill per far capire come
procedo: in assenza di documentazione da poter esaminare e studiare, faccio
leva su testi, quindi come si fa all'università, sui libri. E, sulla linea che
lei adotta, do una interpretazione del corso probabile degli sviluppi di un
procedimento o di una situazione.
"Per certi periodi ho dovuto colmare alcuni vuoti della
documentazione storica sulle informazioni disponibili, circa il CORSO PROBABILE
DEGLI SVILUPPI: un metodo deplorato da molti storici accademici". tratto dal libro “Storia
del cibo” (Rizzoli, 1973, pag 9)
Quindi ora posso proseguire.
Polpettoni e polpette sono allineati sulla tecnica dello sminuzzare, in modo da
rendere gli ingredienti di facile assemblaggio, procedimento spesso agevolato
dall’aggiunta delle uova. Il polpettone con i fagiolini
di Daniela è un vecchio piatto della cucina di casa spezzina e si allinea con
la serie delle preparazioni che fanno leva sull’orto di casa. Molto spesso più
fazzoletti di terra che orti. Ma provvidi per rendere variata e leggera la
cucina del quotidiano. Per prima cosa voglio far riferimento a un’operazione
che non si fa quasi più: adottare le mani come impastatrice dei vari
ingredienti. Ci si affida al robot, ma l’azione delle dita è più leggera e
ottimizzante. E’ la stessa operazione che le donne spezzine del primo Novecento
ancora facevano per condire l’insalata. Provare per credere, ovviamente prese
le adeguate misure igieniche. Questo non vuol dire che dobbiamo tornare
indietro, ma solo che i mezzi attuali ci confortano nella fatica, ma non
assolvono al compito massimo della osmosi fra le sostanze che ispirano i cibi.
Qui si sfiora un tema profondo: quello delle energie.
Sui
trucchi
Mia madre mi diceva che non salava i
fagiolini perché hanno già il loro “sale”. Tanto un po’ di sale lo devi
aggiungere quando impasti. Mi diceva. E qui il bisticcio è forte con quello che
mi hanno detto dopo: il sale messo all’inizio salva il verde dei fagiolini. C’è
un altro fattore su cui bisogna far leva: le cotture. E’ perfettamente inutile
andare a comprare i fagiolini del giovedì al mercatino dei produttori magnifici
della Val di Vara e, a casa, metterli a
cuocere dimenticando che la croccantezza se è indispensabile per gustarli in
insalata, diventa assolutamente di rito nel “lessare” le verdure che dovranno
entrare nel circuito del ripieno della cima (eh già, le mie vicine di casa di
via Privata Cieli negli anni Cinquanta, in stagione, mettevano i fagiolini anche nella cima, come
li mettevano nel polpettone).
Il perché
La storia di non far lessare
troppo i fagiolini sta nel fatto che, prima di tutto non dobbiamo permettere
che i minerali e le sostanze proteiche finiscano nell’acqua scolata e quindi
nel lavello. Poi perché come è nel caso del polpettone (o della cima) vuol dire
farli sottostare a una cottura prolungata.
E ora una considerazione
antropologica...
o quasi: il polpettone era
considerato il piatto del lunedì. Vale a dire che veniva fatto con la carne del
brodo della domenica, dove finiva quella che i livornesi chiamano “la
carnaccia”: punta di petto, ossette, pezzi durissimi di carne, ammassi informi
di nervetti. Tutto questo ovviamente è scenografia di una cucina di casa non
borghese, dove la scelta era rigorosamente di prima qualità: tutta la carne
veniva servita con una salsiera ricolma (per la gioia dei ragazzini) della
famosa salsa verde spezzina.
Un’ultima annotazione di
carattere antropologico: il polpettone del lunedì (e se non era polpettone
erano polpette) vedeva accanto alle fette “sottili” ben allineate nel piatto
oblungo, i famosi sottaceti della padrona di casa. Eh, sì, perché tutte le
donne se li preparavano a settembre con cura maniacale. Poche usavano l’olio
(non a diposizione di tutti) ma l’aceto, che fra l’altro insaporisce in modo
aperitivizzante cipolline, cetrioli, peperoni, melanzanine genovesi, cimelli di
cavolfiore, carote a bastoncino, e lascio alla fantasia delle donne quale altro
elemento aggiungere. Io, per esempio, impazzivo per i sedanini, che mia madre
smerlava con uno strumento.
C’è un perché in questo
abbinamento
I sottaceti vanno mangiati con molto pane per neutralizzare il tono acido dell’aceto. Ma questa operazione risulta tremendamente buona e quindi assolve lo scopo dell’alimentazione del quotidiano: togliere la fame attraverso il gioco del gusto. Se non è intelligenza questa.