Sgabei al finocchietto selvatico |
SGABEI. Skabei. Skabelli. Ma
da dove viene questo nome?
di Gabriella Molli
Sgabei, skabei. Quanti si
sono scervellati per sapere da dove viene questo nome, che di fatto fa pensare
a uno sgabello. O come dice Salvatore Marchese a un supporto per appoggiare
qualcosa. L’enogastrono e scrittore pensa che il nome derivi probabilmente dal
termine tardo-latino skabellum. E che grazia per la nostra gola hanno gli
sgabei, se su quella striscia lievitata come una pancia di donna incinta, si
appoggia lardo di Colonnata a fettine, o prosciutta di Castelnuovo Magra,
oppure la salsiccia di Adò. Tanto per elencare tre eccellenze fra Liguria e
Toscana, che eccitano fantasie della gola. Mangiare sgabei è quasi un rito. Più
ne mangi e più ne mangeresti. Recentemente ospite nella casa del mio amico
Lucio (vicino al Calcandola, alla periferia di Sarzana) ho avuto il piacere di
gustare quelli al finocchietto selvatico. Una delizia incredibile. Lucio non ha fatto
altro che ripercorrere un rito rurale antico, quando, aggiungendo gli aromi, le
donne imploravano per ottenere grazie di felicità (la salvia, il rosmarino, la
maggiorana sono state definite appunto piante della felicità). Cotti in
immersione nell’olio d’oliva extravergine, gli sgabei costituiscono un piatto
d’ingresso (o di seconda portata) di grande appeal. E cercando tracce del loro
percorso storico attraverso i secoli, li troviamo con vari nomi: gnocco fritto
modenese, crescentine bolognesi e, passatemelo, in provincia di Cuneo “bagasce”
(lo dice Alessandro Molinari Pradelli nel libro “La cucina ligure”
(Newton&Compton, 1196).
La forma a losanga si rifà ad
antiche forme geometriche che avevano funzioni sacrali. Doppio triangolo
equilatero (simbolo di perfezione, nella religione cristiana rappresenta la
Trinità) la losanga è stata presente in tante culture. Guardato nella sua
composizione lo sgabeo è rispondente alle usanze gastronomiche del
Mediterraneo. Chi è stato in Tunisia si è visto servire come pane appunto uno
sgabeo fritto in olio di semi. Le donne arabe sono maghe nel friggere strati
leggeri di pasta lievitata. E anche in questa usanza c’è molto di devozionale:
lievito vuol dire alzarsi, crescita. Come nel grembo della donna incinta. Perché
non sono da trascurare questi riferimenti a una cucina che serviva anche per
chiedere doni? In primis la fecondità? Perché raccontano la storia dell’uomo ai
primordi. In tempi in cui si susseguivano fenomeni di paure, fame, atrocità, il
grano e la farina erano il simbolo della vita, dell’abbondanza. E farina con
acqua è stata probabilmente una delle scoperte più geniali della donna
raccoglitrice. Pensate alle feste religiose ancora oggi in atto, che si
collegano al significato del grano che germoglia...la pastiera napoletana ne è
un documento inoppugnabile. Nel caso degli sgabei c’è la tecnica raffinata
dell’immersione nell’olio caldo. Alcuni storiografi fanno risalire questo
geniale accorgimento di cottura ai greci. Che certamente erano avvantaggiati
dalla presenza dell’olivo e dei suoi frutti. Ma le donne del deserto prima
ancora avevano inventato tecniche per raccogliere olio dai semi battuti con una
pietra. Prova su prova, esperienza su esperienza, la frittura per immersione è
nata così in un ambito di piccoli processi di cucina nella fascia
medio-orientale. E, si sa, la cucina e la tecnica camminano con la storia degli
uomini.
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