10 febbraio 2014

SGABEI, Skabei, Skabelli

Sgabei al finocchietto selvatico

SGABEI. Skabei. Skabelli. Ma da dove viene questo nome?
 di Gabriella Molli
C’è un’Italia della pasta lievitata fritta. C’è una cultura genovese dei cuculli fatti con la farina di ceci, c’è una cultura spezzina degli sgabei fatti con la farina di grano. In tutto l’areale della Val di Magra si friggono ancora oggi losanghe di pasta da pane resa sottile con il matterello e il risultato è quello di tanti sgonfionetti leggeri a cui un cenno di sale dà un sapore incantevole.
Sgabei, skabei. Quanti si sono scervellati per sapere da dove viene questo nome, che di fatto fa pensare a uno sgabello. O come dice Salvatore Marchese a un supporto per appoggiare qualcosa. L’enogastrono e scrittore pensa che il nome derivi probabilmente dal termine tardo-latino skabellum. E che grazia per la nostra gola hanno gli sgabei, se su quella striscia lievitata come una pancia di donna incinta, si appoggia lardo di Colonnata a fettine, o prosciutta di Castelnuovo Magra, oppure la salsiccia di Adò. Tanto per elencare tre eccellenze fra Liguria e Toscana, che eccitano fantasie della gola. Mangiare sgabei è quasi un rito. Più ne mangi e più ne mangeresti. Recentemente ospite nella casa del mio amico Lucio (vicino al Calcandola, alla periferia di Sarzana) ho avuto il piacere di gustare quelli al finocchietto selvatico. Una delizia incredibile. Lucio non ha fatto altro che ripercorrere un rito rurale antico, quando, aggiungendo gli aromi, le donne imploravano per ottenere grazie di felicità (la salvia, il rosmarino, la maggiorana sono state definite appunto piante della felicità). Cotti in immersione nell’olio d’oliva extravergine, gli sgabei costituiscono un piatto d’ingresso (o di seconda portata) di grande appeal. E cercando tracce del loro percorso storico attraverso i secoli, li troviamo con vari nomi: gnocco fritto modenese, crescentine bolognesi e, passatemelo, in provincia di Cuneo “bagasce” (lo dice Alessandro Molinari Pradelli nel libro “La cucina ligure” (Newton&Compton, 1196). 

La forma a losanga si rifà ad antiche forme geometriche che avevano funzioni sacrali. Doppio triangolo equilatero (simbolo di perfezione, nella religione cristiana rappresenta la Trinità) la losanga è stata presente in tante culture. Guardato nella sua composizione lo sgabeo è rispondente alle usanze gastronomiche del Mediterraneo. Chi è stato in Tunisia si è visto servire come pane appunto uno sgabeo fritto in olio di semi. Le donne arabe sono maghe nel friggere strati leggeri di pasta lievitata. E anche in questa usanza c’è molto di devozionale: lievito vuol dire alzarsi, crescita. Come nel grembo della donna incinta. Perché non sono da trascurare questi riferimenti a una cucina che serviva anche per chiedere doni? In primis la fecondità? Perché raccontano la storia dell’uomo ai primordi. In tempi in cui si susseguivano fenomeni di paure, fame, atrocità, il grano e la farina erano il simbolo della vita, dell’abbondanza. E farina con acqua è stata probabilmente una delle scoperte più geniali della donna raccoglitrice. Pensate alle feste religiose ancora oggi in atto, che si collegano al significato del grano che germoglia...la pastiera napoletana ne è un documento inoppugnabile. Nel caso degli sgabei c’è la tecnica raffinata dell’immersione nell’olio caldo. Alcuni storiografi fanno risalire questo geniale accorgimento di cottura ai greci. Che certamente erano avvantaggiati dalla presenza dell’olivo e dei suoi frutti. Ma le donne del deserto prima ancora avevano inventato tecniche per raccogliere olio dai semi battuti con una pietra. Prova su prova, esperienza su esperienza, la frittura per immersione è nata così in un ambito di piccoli processi di cucina nella fascia medio-orientale. E, si sa, la cucina e la tecnica camminano con la storia degli uomini. 





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