Walter De Batté con Ezio Giorgi |
Walter De Batté racconta
la viticoltura eroica delle Cinque Terre
Walter è stato uno
dei primi caparbi, ostinati eroi delle Cinque Terre che ha continuato a lavorare sul territorio
per raggiungere come produttore, livelli
altissimi di qualità e questo gli ha dato lustro e notorietà. I suoi vini sono
pura poesia e finché i cinghiali non gli hanno mangiato l’uva, faceva uno
Sciacchetrà unico al mondo!
Ci racconta il suo
punto di vista e la storia della viticoltura eroica delle Cinque Terre
“Partiamo dagli eroi
e dalle citazioni: B. Brecht diceva “maledetta è quella terra che ha bisogno di
eroi” perché chiaramente è una terra in guerra….Oggi più che mai la mia è
ancora una terra di eroi e dopo 20-25 anni in cui si sono fatti discorsi
e progetti sulle Cinque Terre, parlare di eroi è drammatico, per il senso di
solitudine e l’essere lasciati soli di fronte ad un ineluttabile declino. Io
vivo Riomaggiore, il paese che ha forse la campagna più estesa delle Cinque Terre, sino
al 1800 c’era una popolazione di circa 2000/2500 abitanti che lavorava su tutta
la campagna, (adesso saremo in cinque persone..) era una cooperativa non
scritta: ognuno lavorava i suoi terreni nelle varie coste però quando crollava
il muretto o il viottolo, tutti accorrevano ed intervenivano perché c’era un
interesse comune, non c’erano i cinghiali e c’era una costante manutenzione. Sono aumentati i produttori negli ultimi anni ma è diminuito
il territorio coltivato.
Ci dovrebbe essere un intervento globale di pianificazione e di ricerca fondi per
rimettere in sesto questa zona per un grande interesse della comunità perché,
come avete visto con l’alluvione dell’ottobre 2011, a Vernazza e Monterosso, ci
sono milioni di metri cubi di muretti a
secco abbandonati a se stessi che incombono come una spada di Damocle,
soprattutto sui quattro paesi più bassi (Corniglia è un po’ più in alto ma
rimarrebbe comunque isolata). Bisognerebbe capire che cosa si vuol fare di
questa terra, perché serve realmente un investimento per il futuro, anche per i
giovani. La bellezza di questa zona attira 3-4 milioni di persone all'anno ma
noi delle Cinque Terre non siamo straricchi: con gli ultimi scandali abbiamo visto che
alcuni pochi “fortunati” si sono arricchiti molto, non sono stati dati aiuti ed
il territorio è stato comunque
abbandonato a se stesso, adesso siamo messi peggio di prima. Di conseguenza i
vini che stiamo assaggiando in questo momento, sono veramente strappati alla
natura. Il Parco delle Cinque Terre è un Parco Naturale ma anche dell’Uomo, perché
tutto quello che c’è lo ha costruito l’uomo, senza l’uomo ci sarebbero
solo boschi di cerri e dirupi fino al mare. Se l’uomo non lo mantiene nulla
avrà più un senso.
Storicamente questi paesaggi sono nati nel ‘700-’800 d.C.: c’è una teoria soprattutto su Riomaggiore secondo la quale alcuni
profughi greci che stavano fuggendo da Corinto per una serie di persecuzioni, sarebbero
approdati in questa zona, ed avrebbero percorso il Rivus Maior fino alle
sorgenti per necessità di acqua; lì ci fu il primo insediamento di Riomaggiore,
ovvero Casinagora o Cacinagora (piazza dei Caci). Da qui in 200 anni si è
costituita tutta una serie di nuclei (Montenero, Lemmen, Sarricò) che sono entrati in relazione con Carpena,
castello potentissimo che dominava tutta la Val di Vara ed in lotta continua con Portovenere,
che era già genovese. I signori di Carpena sono venuti verso le Cinque Terre e si sono
alleati con questi nuclei, che hanno cominciato a terrazzare ed hanno costruito
i vari paesi nati nel 1100- 1200. A Riomaggiore le prime costruzioni
furono la Rocca e, sul mare, due Torri
di guardia; il primo nucleo fu il quartiere di S. Antonio, che dalla marina,
sale rapidamente alla Rocca; se lo percorrete, troverete dei campi
strettissimi, concepiti perché la popolazione potesse (in caso di pericolo)
scappare di casa in casa, fino a raggiungere la Rocca. Questo fino al 1416,
anno della caduta di Carpena; con l’avvento di Genova nasce una linea di
commercio sul mare e si trasporta questo vino con i leudi verso la Toscana,
l’Elba, Roma (nelle cantine papali) ma soprattutto verso ovest, la Francia,
Marsiglia, il Rodano ed il Nord Europa. Da lì la grande fama con la massima
espansione nel 1600 con un numero di 2500 abitanti che viveva di viticoltura.
Uno scambio fortissimo di commercio e persone; tutto ciò è andato avanti fino
al 1915 quando, in ritardo rispetto al resto dell’Europa arriva la filossera,
un insetto che mangia le radici delle viti, primo devastante effetto della
globalizzazione: non era presente in Europa ma solo in America; cambiando il
sistema di navigazione, dalla vela al vapore, i tempi di percorrenza dell’Atlantico
si dimezzarono da due a un mese, così la
filossera sopravvisse sulle radici delle viti americane che venivano importate
e fece strage di tutti i vigneti europei (tranne che in pochissime zone come la Valle d’Aosta
oltre i 900 metri, in Sardegna dove le viti erano piantate sulla sabbia). Tutta
l’Europa ha avuto una decimazione dei vigneti. Questa società che aveva come
unico mezzo di sostentamento il vitigno, in tre anni si è spampanata ed alcuni
abitanti sono inevitabilmente migrati, altri sono andati a lavorare a La Spezia nell'Arsenale Militare e le donne sono rimaste a custodire ciò che era rimasto.
Gradatamente i vigneti sono stati abbandonati, fino al momento più critico per
questo territorio, tra gli anni ’60 e’80 quando c’è stato uno sterminio di
vigneti. Il tentativo di rimettersi in gioco negli anni ’90 ha funzionato solo
dal punto di vista mediatico, perché in realtà, siccome non sono stati fatti
investimenti seriamente, non c’è stata una vera espansione di aziende, molti giovani
hanno provato e stanno provando a fare vino ma con attività di piccole
dimensioni.
Inizialmente i vitigni piantumati nel 1100 (dalle fonti di Giorgio Gallesio,
un ampelografo di Savona che ha scritto intorno al 1830 la Pomona Italiana , ancora punto di riferimento della viticoltura moderna, per
capire da dove veniamo) erano tre: il Rossese Bianco (ne abbiamo
ritrovate tre piante nel 1997 a Manarola ed abbiamo cominciato a riprodurlo),
il Vermentino e l’Albarola. Il Bosco compare (con teorie controverse sulla provenienza), a metà
dell’800. Io lo chiamo il vitigno bianco dall'anima rossa, perché ha bisogno di
coste assolate, l’ho voluto recuperare negli anni ’80 perché è un vitigno molto
interessante, imbattibile maestro per la
sua profondità, mineralità ed essenza. Se portato in surmaturazione arriva a
note molto forti di albicocca che percepiamo nello Sciacchetrà. Dagli anni ’20 in
poi quindi l’uvaggio è cambiato ed ora si producono prevalentemente Bosco, Vermentino e Albarola
(uvaggio adottato dalla DOC negli anni ’70). Questa storia ha un senso se
sapremo coniugarla al futuro, siamo ad un passaggio cruciale, speriamo di poter
dare inizio ad una stagione nuova per tutte le Cinque Terre".